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ricordi di una licealista


C'è un po' di maretta tra me e i miei genitori, loro vogliono iscrivermi al liceo classico o al magistrale, io voglio andare al liceo scientifico.

Il liceo scientifico della mia città solo da un anno ha aperto le iscrizioni anche alle ragazze, quindi la sua popolazione è quasi prettamente maschile. Io punto i piedi per terra, o quello o niente, e la spunto. 

La spiegazione è finita e la penna del professore scorre su e giù lungo il bordo sinistro del suo registro personale e, come la bacchetta di un maestro di musica, dirige i battiti di ventitré cuori.
La mia compagna di banco lascia la sua pallottolina sotto il ripiano dei libri e tende la mano verso di me, vuole che la tenga tra le mie per farle coraggio, io trattengo il respiro e mi scosto ancor più. 
Quando è presa da sensi di colpa, si fa accompagnare dalla nonna a casa mia, così mentre lei cerca di recuperare, la mia povera mamma, con una famiglia numerosa sulle spalle, è costretta, per buona creanza, ad intrattenere la vecchia. 
Finalmente disegno! Il professore ci lascia liberi, possiamo gironzolare per l'aula, parlare, mentre lui si diverte a ritrarci.
Attenzione! Arriva lui, molliccio come una cozza nuda, il professore di storia e filosofia! È l'unico professore ad avere l'automobile e si pavoneggia anche se tutti sanno che è parte della dote della moglie sedotta e abbandonata. 


Siamo in quattro ragazze, i nostri compagni che hanno sempre frequentato classi maschili, ci vedono come intruse che limitano le loro libertà d'azione e di linguaggio durante l'intervallo.
Fino ad ieri sono stata seduta vicino ad un ragazzetto che confrontato con il mio metro e sessantacinque è un nano (dopo le vacanze estive del quarto anno supererà il metro e novanta), ma da questo momento sarò al fianco di una ragazza più alta di me, grassoccia, bruna bruna con peli neri sotto il naso, sulle mani, sulle gambe. Quando si muove la scollatura a punta del grembiule scopre una riga nera della stessa forma del décolleté. Emana un cattivo odore, misto di alcool e di sudore.
Il professore di matematica, la cui solo stazza basta per incutere terrore, sta spiegando e la mia compagna di banco, con il naso per aria, impasta, tra l'indice e il pollice della mano sinistra, una pallottola di muco.
Da un po' di giorni, per lei, la scuola è passata in secondo piano: si è innamorata. 
Figlia unica di una famiglia tutta casa e chiesa, ogni mattina la nonna l'accompagna fin sopra i gradini del Battaglini, le fa una carezza, lei bacia la nonna, e dopo tre minuti è dietro l'angolo della scuola abbracciata al suo moroso.

Senza un attimo di respiro un professore dopo l'altro siedono in cattedra. 
Il professore di scienze parla e noi, incantati, seguiamo il movimento della parte superiore del suo cranio mentre la mascella inferiore è immobile.
La professoressa di lettere stretta in un busto che la fa appena respirare, non si siede mai, sempre là, dietro alla cattedra, dritta come un fuso, su i suoi tacchi a spillo alti dieci centimetri.

Ho avuto otto in storia. Mi ha guardato con il suo sorriso fesso, " Signorina, vuole essere interrogata?"  mi ha chiesto e il mio sì si è trasformato in otto. È il suo modo di interrogare noi ragazze e da un bel po' non studio più né storia né filosofia. Odiamo, lui e i suoi modi da bellimbusto, ... bello ... si fa per dire. Da un mese i ragazzi non ci lasciano mai sole in classe quando vanno a fare ginnastica, a turno uno di loro rimane con noi. Perderà il vizietto, il caro professore? Non mi ha insegnato niente ma il suo cattivo esempio mi ha aiutata a diventare un'eccellente e amata insegnante.

Riprende la lotteria! Apriamo "The picture of Dorian Gray" e nascondiamo tra le sue pagine il foglio in cui c'è scritto il nome di ciascuno di noi seguito da crocette, e siamo pronti ad aggiungerne altre a quei sventurati che oggi saranno invitati a leggere. For the new dear teacher of English reading is synonym of two.
 
Nel terzo anno è arrivato un nuovo ragazzo e c'è stata subito simpatia tra noi, una buona intesa ci ha uniti negli ultimi tre anni e siamo diventati grandi amici. 
Ci stiamo preparando per gli esami di maturità, viene a casa tutti i giorni e rimbeccandoci e giocherellando studiamo tanto. Quando ci concediamo una pausa andiamo a zonzo a guardare le vetrine. Davanti ad un costume da bagno bianco a fasce rosse mi dice d'amarmi da sempre e la nostra amicizia finisce là. Io gli voglio un bene dell'anima, ma come amico, non potrò mai amarlo perché ... Scusami, caro, amico per sempre!

settantadue

Settantadue!
E' questa la mia vera età, carta d'identità alla mano.

Dico questo per tutti coloro che mi conoscono fisicamente e ai quali ho sempre mentito sulla mia età, ma non come fanno la maggior parte delle persone o come la maggior parte delle persone crede che gli altri facciano, ma nel senso contrario, io ho sempre detto di più della mia vera età. Perché? Mi piacevano i come li porti bene! e complimenti, non si direbbe! e me ne davano molto di meno di quanto effettivamente ne avessi.

Sono felice di essere ed essere così come sono, con i miei capelli bianchi che non tingo, con le mie rughe che non cerco di nascondere e con tutti i miei capricci di bambina che mi porto dentro.

L'età avanza?
Ora il gioco è finito ma non perché non mi va di dire eh! ho passato la settantina ma perchè nessuno più mi chiede l'età.

Che età ho?
Ci devo pensare, devo fare i miei bei calcoli, sono nata nel 1941 ora siamo nel 2013 quindi ... l'entusiasmo che ho per le cose che faccio è sempre lo stesso, la ricerca di cose nuove è sempre la stessa, il mio rapportarmi con gli altri è sempre lo stesso, lo stesso di quando ne avevo venti, trenta, quaranta, ...

Cosa è cambiato da allora?
Niente.
Nello specchio mi vedo sempre uguale, a meno che non mi metta a confronto con qualche vecchia foto.

Ma poi conta tanto l'aspetto fisico?
Forse al primo impatto, ma poi vai oltre, dimenti l'involucro e vai all'essenza.

Settantadue!
Sono felice ed orgogliosa della mia età stringendo a me tutto il mio passato che nonostante i grandi dolori che mi ha dato riesce oggi a colorare e ravvivare la mia vita.


Ebbene, cosa c'è di meglio dell'età che avanza?

Questa mattina, appena ho aperto gli occhi, mi son detta Auguri Felicetta, hai vissuto un altro anno! Ed ora in marcia, si riparte! 
Ci risentiamo il prossimo anno!.


2 novembre

Oggi, con animo più sereno, riesco ad andare indietro nel tempo, a quando le parole morte, camposanto, crisantemi, tombe, non portavano mestizia nel mio cuore.


2 novembre: non importa quali siano le previsioni del tempo, potrebbe esserci anche il diluvio universale, la mamma, in punti di piedi, alle sei del mattino mi sveglia, mi aiuta a vestirmi, mi prepara un ciotolone con latte appena bollito, pane e tanto zucchero e poi, con mille raccomandazioni, mi accompagna al primo piano dove mi attende la nonna.

La nonna la ricordo sempre allo stesso modo. Vestita di nero, abito lungo fino alle caviglie e quando esce, scialle di seta, sempre nero, in testa. E' molto vanitosa la mia nonna, non esce di casa se lo scialle non cade sulle spalle con le stesse graziose pieghe di quello della Madonna che dall'alto del suo lettone di ferro la guarda mentre si veste.


Prendiamo dal tavolino del salottino, all'ingresso, i fascioni di crisantemi gialli e bianche  e il sacchetto di stoffa pieno di lumini di tutte le misure e ci  avviamo alla fermata del bus che è ancora buio.


Per strada c'è una vera processione di gruppetti silenziosi, carichi di fiori e lumini.


Quando arriva il bus a stento entriamo tutti.


Una volta nella Cappella di famiglia aiuto la nonna a sistemare fiori e lumini e quando è tutto ordinato e pulito lei siede e prega per quei figlioli che Iddio ha voluto accanto a Sé, mentre io, ansiosa, attendo l'arrivo di mia cugina.


"Ah, eccoti finalmente! Ciao" "Ciao" e iniziamo i nostri giri.


Andiamo nella parte più moderna del cimitero dove tutte le tombe sono lustrate a nuovo, traboccanti di fiori, illuminate dalla tremula luce di tanti ceri. Ci soffermiamo presso quelle più recenti per ascoltare le donne che, con pianti dirotti e voce sempre più rauca, raccontano della vita e della morte del loro caro estinto; il pianto e il racconto, sempre lo stesso, ricomincia non appena una nuova persona si avvicina.


Il nostro girovagare dura ore.


E non manchiamo di andare al cimitero militare, file di croci senza fiori e senza luci. Leggiamo ad uno ad uno i nomi incisi e inventiamo per ognuno una vita di affetti, di paure, di speranze, di sofferenze, di solitudine e di morte.
Quando il giorno sta per finire raggiungiamo la nonna con la testa piena di tante storie vissute e non vissute.


Pigiati l'uno sull'altro, attenti solo che i fiori non si spampanino, si comincia a parlare di malattie, disgrazie e morte; qualcuno tira su col naso le sue lacrime, qualche altro bisbiglia "pace alla sua anima".

Ascolto, curiosa, ma non riesco a partecipare al dolore che mi circonda. La morte per me è solo una parola e questo è solo un giorno di festa.

La prima tappa è al cimitero vecchio, poco frequentato, misero di fiori e di lucine.
Molte tombe sono rotte o addirittura scoperchiate e noi curiosiamo speranzose di vedere qualche teschio ma pronte ad allontanarci poi di corsa, col cuore in gola, se qualcosa si muove.
Ci fermiamo a leggere, con molta difficoltà perché le scritte sono sbiadite o quasi cancellate, le date e gli epitaffi che raccontano, spesso in rima la vita del defunto.
Lasciamo qualche fiore qua e là fino ad esaurire il mazzetto di crisantemi che ci siamo portate dietro.

Abbiamo le nostre tombe preferite che ogni anno non manchiamo di visitare e che tanto eccitano la nostra fantasia: la fanciulla, sposa felice, morta nel dare alla luce il suo primo bambino; il giovane travolto da un cavallo imbizzarrito; il pescatore inghiottito con la sua barca da alti marosi ed il cui corpo venne trovato, quasi del tutto scarnito, dopo vari giorni; il piccolo volato in cielo, angelo tra gli angeli; il padre di famiglia soppresso da una lama di coltello.


delirio

Ha piovuto incessantemente per ore ma, tornato il sole, l'afa si è fatta nuovamente sentire perciò la sera si va lo stesso all'arena.

Ora sono a letto, il dottore viene ogni giorno a scoprirmi il torace, a tastarmi le gambe.

Mio fratello è tornato a scuola ed io sono ancora a letto.

Gli zii gironzolano intorno al mio letto e parlano sottovoce con la mamma che piange: la febbre reumatica mi tormenta.




Momenti di lucidità si alternano a momenti di delirio, la realtà s'impasta con i sogni, il presente con il passato.
Le ombre sul grande specchio dell'armadio di fronte al lettone prendono forma. La nonna, tutta vestita di nero, sposta con le mani i carboni ardenti da un fornello all'altro della grande cucina economica piastrellata di bianco; la zia ravviva il fuoco sventolando un pezzo di cartone.
Venti orfanelle in fila per due, avvolte in mantelline grigie, col capo coperto da cappellini anch'essi grigi, recitano il rosario insieme alla suora, abito nero lungo fino ai piedi e capo coperto da un cappello bianco con due grandi ali laterali che le nascondono tutto il viso.
Uomini uomini uomini e tutti visi sconosciuti.
Il suono delle trombe e tromboni diventa metallico, lame che cozzano tra loro.
Chiudo gli occhi per la paura.








Il fuoco si fa sempre più vivo, più grande; carpisce e brucia la lettera che mio cugino Silvio ha scritto dal Brasile a zio Umberto che ora piange accanto al mio letto.

Mio padre dorme. 
Russa.
Una torma di ragazzini vocianti gli saltano intorno facendo cigolare le reti del letto.

Il prete e quattro chierichetti aprono il corteo.
Segue il carro funebre, trainato da quattro cavalli bianchi, seguito dai mie zii e i miei cugini più grandi, solo uomini.
La banda suona una lugubre musica che mi martella il cervello.
La zia morta mi accarezza il capo.
No! zia, no!
Tremo di terrore.
Tutto diventa buio e freddo intorno a me.

Due avvinazzati concludono la loro lite fuori della cantina.




 
Mi addormento.

In ginocchio sul cuscino strappo la carta da parato dalla parete a cui è appoggiato il mio lettino e con meticolosità ripongo pezzetto dopo pezzetto nella tasca dei pantaloni del babbo che con il suo vicino costruisce una radio.

La radio suona una allegra musichetta.
Una grossa VdR scherma l'altoparlante fra due antine luccicanti piene di bottiglie di liquore.
Ora la radio gracchia, ronza, sibila.

Il postino fischia e mi chiama con la sua voce roca.

Tanti aghi si muovono veloci su di una stoffa bianca che si trasforma in colorati arabeschi, una miriade di bottoncini di stoffa mi cadono addosso e la voce della mamma si fa sempre più alta.

Me ne sto con gli occhi umidi, con in mano le calze di seta smagliate della mamma, dietro la porta a vetro schermata da pesanti tendine che zio Emilio tiene sempre giù per celare il suo laboratorio alla vista dei parenti.

Le lacrime scendono calde sul mio viso esangue, bagnano il quaderno dagli angoli accartocciati, le mani del babbo si trasformano in nodosi bastoni.

Un boccone di baccalà che non riesco ad inghiottire mi fa tossire.

Tossisco tra le braccia della mamma che mi asciuga la fronte imperlata di sudore.